Killing me softly
È un doppio passo quello tenuto da Pierluigi Dessì, una narrazione fotografica che si confronta con la dimensione urbana declinandosi nelle vie di Florinas.
Questo pas de deux si manifesta nel duplice vocabolario visivo utilizzato negli scatti, una doppia selezione che procede parallela: a una cinquina di porzioni corporee corrispondono altrettanti oggetti. Due contesti narrativi, due coniugazioni tecniche.
Gli oggetti selezionati sono di banale utilizzo quotidiano, seppur porti con una cura da gioielliere e raffinato cromatismo. Sono tutti (tranne uno) accessori, per definizione dunque secondari, che accompagnano ma al tempo stesso completano un outfit. Ma gli accessori scelti da Dessì non hanno solo funzione ornativa ma anche protettiva: sciarpa, calze, guanti... ci definiscono e, contemporaneamente, ci schermano dal mondo, mettono barriere tra il nostro corpo e quello degli altri.
Proprio i corpi sono i protagonisti della seconda cinquina; o meglio le porzioni che di questi ci vengono concesse, dominate da una luce bianca che sa essere al tempo stesso algida e calda, distante ma familiare. La luce di una uguaglianza, di una meta intima che viene stemperata e insieme rafforzata da composte casualità geometriche.
In purezza e perfezione, sono piccole grazie, scoperte improvvise, epifanie domestiche. La sensazione è privata seppur defraudata da ogni rassicurazione. Il lockdown è ancora troppo vicino e vive sono le considerazioni sul nostro “abitare” per dichiararci inconsapevoli.
I corpi, dicevamo. Giacciono. Abbandonati, come se...
È su questo crinale dubitativo che si colloca la forza e la bellezza dell'intero lavoro.
In Killing me softly, Pierluigi Dessì indugia sulla soglia dell'ambiguità, deliziandosene, mettendo a confronto il delitto e il diletto: dall'abbandono che ci travolge dopo il piacere all'esanime assenza di battito cardiaco; una doccia che può essere tenera o terribile a seconda di chi aprirà quella porta; una sciarpa può proteggere dal freddo oppure essere usata consapevolmente nell'arte erotica dello Shibari o del Kinbaku, e lo stesso vale per la cinta o le calze. E il coltello?! Da protagonista noir per antonomasia può essere re della cucina e dunque dispensatore di delizie.
Il gioco vero sarà dunque non solo la singola percezione corpi / oggetti ma il possibile dialogo innescato tra i due “mondi narrativi”, dialogo a carico esclusivo dello spettatore, non fruitore passivo ma co-autore.
L'intero lavoro è carico di rimandi, raffinati e colti, che oscillano dalla psicanalisi al cinema, dalle credenze popolari alla letteratura noir.
Sul tavolo sono le pulsioni, le più basiche e primordiali: Eros e Thanatos.
La domanda però è: quanto è sottile la soglia che le divide? Quanto l'una può essere scambiata per l'altra, quanto si intrecciano e nutrono reciprocamente fino a confonderci?
La riflessione è quanto mai attuale, resettati nella nostra scala valoriale dai recenti accadimenti, stiamo tentando di ridare un senso al tutto.
Forse è questo il vero pregio del lavoro di Dessì: oltre all'innegabile godibilità estetica, c'è la contezza del bagaglio culturale che abbiamo alle spalle ma, al tempo stesso, l'invito a viverlo con duttilità, usarlo per scoprire noi stessi e il mondo, muoverci con consapevolezza tra ciò che appare e ciò che è. Non avere certezze. Dubitare sempre.
Del resto uno dei compiti dell'arte dovrebbe essere proprio questo: non solo riportare storie, fatti, eventi, ma raccontarci a noi stessi, svelarci ogni volta.
Come il più complesso e più affascinante dei gialli.
Sonia Borsato