A immagine e somiglianza
Quando ho chiesto a Pierluigi Dessì se voleva partecipare al progetto triennale promosso dal Consorzio di Comuni Due Giare per mappare una serie di piccoli Comuni della Marmilla, lui ha fatto un gesto di attesa e con aria tra l’indeciso e l’incuriosito mi ha detto: «Dammi qualche giorno per decidere». Quel tempo di sospensione, il trattenere il pensiero tra l’adesione e la rinuncia, l’istinto quasi automatico di immergersi nel proprio vissuto interiore per ripassare in una frazione di tempo la lunga marcia vissuta nella pratica fotografica fin dai tempi della scuola, quel tempo di sospensione, dicevo, è la chiave di accesso per leggere e per apprezzare il lavoro fotografico realizzato
da Dessì ad Assolo, una comunità di circa 360 abitanti. La scelta di fare i ritratti a tutte le persone che desideravano approfittare della presenza in paese di un fotografo
professionista era per Pierluigi Dessì come ripercorrere un viaggio a ritroso nella storia della fotografia. Una sfida praticamente temeraria nel tempo dei dispositivi che offrono la possibilità di trasformate tutto in immagine e in pochi secondi condividere in rete.
Questo l’elemento in chiaro della campagna fotografica: ridare allo scatto fotografico un ruolo non consumistico e fuggitivo, per ricondurre la partita a un incontro cosciente tra il fotografo che offre un servizio di riproduzione e il modello che si fa immortalare a futura memoria. «Il progetto per Assolo», precisa il fotografo «si muove principalmente su due registri: il primo molto concreto e pratico consiste nel fornire a una comunità che ne è sprovvista la figura del fotografo professionista che ti fa un ritratto e te lo consegna stampato su carta con l’intenzione di contribuire attraverso un piccolo frammento alla memoria individuale e collettiva; il secondo di carattere filosofico e relazionale». La seconda motivazione è sostenuta con maggior precisione: «Realizzare un ritratto fotografico presuppone innanzitutto il guardarsi, instaurare una relazione visiva, e non solo, tra due individui, in questo caso fotografo e fotografato che accettano di mettersi in gioco. È un accordo tacito che passa dagli occhi attraverso una lente per essere trascritto da una sequenza numerica che la restituirà nuovamente quella relazione, inevitabilmente frammentata e parziale al nostro sguardo, una volta stampata». Il progetto conferma il cuore della pratica fotografica come l’hanno vissuta e in parte ancora la svolgono gli attori principali di questo mestiere.
A me – frequentatore di biblioteche piuttosto che di laboratori e di studi fotografici – ha richiamato le prime letture sull’argomento dove esploravo, dalla finestra,
il mondo magico della fotografia. All’inizio degli anni Ottanta del Novecento un cultore della materia, Oliviero Maccioni, ha cercato di storicizzare la pratica fotografica in Sardegna, e tentato di ricostruire il fermento e le peculiarità dei fotografi e degli studi fotografici che fin dalle origini hanno esercitato a Cagliari e nelle principali città dell’isola. In quei suoi testi, Cagliari, tra cronaca e immagini. La fotografia in Sardegna dal 1839 al 1943, 2 volumi, ristampati qualche anno dopo con il titolo più ambizioso Visioni di Sardegna, respiravo i sali d’argento e sognavo di vivere con una macchina fotografica a tracolla. L’idea di andare in una piccola realtà per testare il richiamo profondo di un fare diventato col tempo routine automatica mi ha richiamato una pratica in uso nel mondo dello star system fotografico.
Per stemperare lo stress delle lunghe sedute di lavoro a perfezionare gli scatti da pubblicare su “Vogue” e la pletora di riviste di moda, alcuni decidevano di prendersi una pausa per immergersi in una realtà primitiva e incontaminata. Tra i tanti sono noti i ritratti di Irving Penn, documentati in Passaggi. Archivio di lavoro, del 1991, sulle tribù presenti negli anni Settanta della Nuova Guinea. O gli scatti di Hans Namuth, il noto fotografo di artisti e dei dripping di Jackson Pollock – in Sardegna nome familiare per la serie di foto allo scultore Costantino Nivola –, che nel 1989 pubblica Los Todos Santeros, un album realizzato presso gli indigeni Mam nel villaggio di Todos Santos Cuchumatán, in Guatemala. Ritratti essenziali e allo stesso tempo universali. «A immagine e somiglianza», precisa Dessì «è un verso preso in prestito dalla Genesi, nasce con l’intento di eliminare il più possibile le sovrastrutture visive che molto spesso caratterizzano la fotografia, concentrandosi sullo sguardo e su questo ‘flusso’ che passa inevitabilmente tra lo spettatore e l’immagine fotografica».
Salvatore Ligios